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El sogno

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I racconti di Valentino Morello
El sogno



"Va a far calcossa, pindolòn de uno!" urlò (erano circa le nove di lunedì mattina) la Marianna dei Béch, che abitava in una delle ultime case del paese, ma aveva una voce che la sentivano fino in piazza.
Gino Palma, detto “Quarèl” perché faceva – ma solo quelle poche volte che se lo sentiva – il muratore, saltò sul motorino e si allontanò velocemente da quella specie di altoparlante della consorte, grassa e rossa come un pomodoro troppo maturo. Lui aveva bisogno di silenzio. Nel silenzio poteva fare l’unica cosa che gli piacesse veramente: dormire e, soprattutto, sognare.
Non si sa bene come fosse cominciata, ma Gino Quarèl si era scoperto la vocazione di interpretare i sogni.
Uno poteva sognare una vasca da bagno, un cacciavite, un rospo, Gina Lollobrigida, una botte di vino o una pezza di formaggio; poteva anche sognare una processione di suore, il Piave in piena con l’acqua sporca, la suocera nelle fiamme dell’inferno, fulmini, bufere e terremoti. Lui, Gino Quarèl, diceva tutto quello che il sogno voleva dire, così sicuro che neanche don Gilberto avrebbe potuto tenergli testa quando, la domenica, predicava in chiesa.


Gino Quarèl, immerso in uno dei suoi sogni!

Finché si limitò a spiegare i significati dei sogni degli altri, le cose gli andarono piuttosto bene e riuscì a crearsi anche una certa notorietà: non c’era donnetta o ragazza o marito che non gli raccontassero le cose più strampalate dei loro piccoli o grandi sogni.
Di “quarèi” veri Gino Quarèl ne metteva su pochi, uno sull’altro; ma di chiacchiere e di balle costruiva case, palazzi, monumenti: gli piaceva quell’aria incantata della gente che lo ascoltava e gli piacevano le storie che lui stesso raccontava. Ma si montò la testa: un po’ per volta, si stancò di ascoltare le stupidaggini degli altri, e cominciò a raccontare agli altro quello che sognava lui.
Le cose peggiorarono ulteriormente quando passò alla “preveggenza”. Le sue schedine del Totocalcio, date per “certe”, si fermavano – quando andava bene – a quattro punti. Quando dava un terno al Lotto nessuno dei tre numeri usciva su alcuna “ruota” di alcuna città. Un anno, consigliò a una cinquantina di paesani di correre ad acquistare dieci biglietti a testa della Lotteria di Capodanno alla stazione di Venezia. Ebbene, i primi cinquecento numeri estratti risultarono venduti in Sicilia.
La perdita della fiducia dei conterranei fu un grave colpo per Gino Quarèl: ma per giustificare la sua depressione, che lo portava a passare lunghi periodi in tristi meditazioni lontano dal lavoro, e per crearsi attorno nuovi interessi, cominciò a riferire notturne visioni su ciò che gli sarebbe successo il giorno dopo. Così, una volta sognava di rompersi una gamba, e restava a casa; un’altra, di cadere da un tetto; un’altra ancora, di finire sotto il treno; ci fu persino una volta che si rifiutò di mettere il naso fuori dalla camera perché aveva sognato di sposarsi un’altra volta con la Marianna (e nessuno, almeno per questo, osò dargli torto).
Quando ormai nessuno credeva più alle sue storie e ai suoi sogni e tanto meno a quello che avrebbe potuto prevedere, successe un fatto nuovo. Una mattina venne al cantiere del Gino la Marianna, a dire che quel matto del marito aveva sognato che gli avevano rubato il motorino e che, anche oggi, restava a casa, e che lei sperava tanto ma tanto di restare vedova. Ci fu, tra alcuni di quelli che stavano sulle impalcature, uno sguardo d’intesa: e, quella notte, quattro ombre furtive scivolarono nel cortile del Gino.
Una diede un calcio al povero Toto, un cagnetto che mangiava poco e abbaiava molto; le altre, da sotto il portico, tirarono fuori un motorino; poco dopo, nel cortile, restò solo il povero Toto a leccarsi il didietro.
"Savéu che difarensa passa tra la mollie e un motorin?".
Erano tutti attorno al povero Gino Quarèl, a tentare di farlo sorridere:
"… che se i te cia… se i te roba el motorin te te inacorzi!".
Tutti ridevano, ma non Gino: l’unico sogno della sua vita che si era verificato …era una catastrofe!
"Va là. Va là! – disse una delle quattro ombre, che si chiamava Giulio Garbo – che mi ho sognà che se te lassi ’na damigiana de merlot in mezo al cortivo, el to motorin el torna de corsa indrìo al so’ posto!".
La notte dopo, ci fu un gran cantare, per le strade del paese: e quattro erano le voci. E poi ci fu, brevemente, lo scoppiettìo di un motorino: e le voci diventarono cinque. L’ultimo sogno rimase al povero Toto: di non prendere più calci nella sua vita da cani.

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