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El telefono

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I racconti di Valentino Morello
El telefono



Il telefono arrivò in casa di Beppo Piavòn, detto Cici, portato da un vento di guerra: lui (Cici) non lo voleva, ma lo esigevano la figlia (Caterina) e la moglie. Secondo la Caterina, che doveva diplomarsi ragioniera, mezzo mondo avrebbe dovuto telefonare per offrirle un posto; e la moglie (che aveva da molto tempo passato l’età dei diplomi) arrivò addirittura a ricattarlo su argomenti dove pure (a ben guardarla) aveva da molto tempo passata l’età: e Beppo, padre affettuoso e marito casalingo, cedette alla violenza.


Il telefono e la disperazione di Beppo Piavon

I primi tempi di convivenza con quel “coso” furono, per Beppo, estremamente penosi: non sopportava gli squilli delle chiamate, né l’ansia delle due donne che componevano numeri su numeri dalla mattina alla sera e chiacchieravano nella cornetta per ore e ore, né le loro espressioni, i gesticolamenti, le mossette e le smorfie; con "quel coso" si sentì ben presto molto solo. Pur di conquistare anche lui una “voce amica”, si ridusse, qualche notte, (approfittando del sonno duro delle due femmine) a comporre il 161 per ascoltare – beato – l’ora esatta.
Col passar del tempo, Beppo Piavòn (che evidentemente stava superando lo “shock” iniziale) per garantirsi un posto importante nella gestione del telefono imparò a precipitarsi sul “coso” appena questo squillava nelle ore – diciamo così – più insolite (nelle ore “normali” era assolutamente impossibile battere in velocità le due femmine): purtroppo, nel cento per cento dei casi, le telefonate erano di gente che aveva sbagliato numero.
I giorni di Natale e Pasqua, per esempio, diventarono un incubo: verso le cinque del mattino squillava imperioso ed insistente il telefono, e il povero Beppo – arrivato col fiatone, seminudo e rincretinito dal sonno – si sentiva dire:
"Ciao, Maria, cara da Dio, tanti tanti tanti auguri e baccioni da to zia Elsa da la Svissara che te pensa tanto insieme a to mare, a to pare…".
"To nona e to sorèa!" aveva l’animo di concludere Beppo, che cominciava regolarmente quelle sante giornate con terribili bestemmie.
Le comuni domeniche non  erano meno pericolose: gli capitava infatti, abbastanza di frequente di sentirsi apostrofare – sempre verso le cinque del mattino, poco prima o poco dopo – così:
"Ciò, ebete, varda che semo drìo a spettarte, ah! E ricordate de caricar el vin e le brasòe!".
"Ma… ma… chi… chi parla?" balbettava Beppo.
"Dài, insemenìo! Dài mòvete, che el sol magna le ore, e rivarémo in montagna a mesanòte!".
Le ore notturne, poi, erano le preferite da donne appassionate e logorroiche. Il povero Cici doveva sorbirsi spaventosi intrighi d’amore, seduzioni e minacce prima di riuscire a precisare che lui si chiamava Beppo Piavòn e non “anima mia dolce” o “brutto porco schifoso” e che di tutte quelle storie non gliene importava un fico: seguivano, generalmente, alcune urla isteriche, una serie di parolacce e l’interruzione sdegnata della conversazione.
Una sera, verso le sette – ora in cui la signorina Caterina riceveva “pressanti offerte d’impiego” – (secondo l’espressione della madre) – squillò il telefono: ma, per una fortuita circostanza, la Caterina era barricata in cesso per un’angosciosa stitichezza, e la madre era volata in farmacia per acquistare una dozzina di purghe per la sventurata figlia e, quindi, toccò rispondere a Beppo.
"Prrrontooo!?" annunciò Beppo.
Dall’altro capo, una voce sommessa e frettolosa – che gli parve artefatta – chiese:
"Per favore c’è la Ketty?".
Lì per lì Beppo Piavòn non capì un cavolo: né chi fosse l’interlocutore, né cosa volesse, né – tanto meno – chi fosse questa “Ketty”; (non avrebbe , infatti, mai sospettato che la sua Caterina potesse essere definita “Ketty”); ma reso smaliziato da tanti anni di ignobile convivenza con il “coso”, convinto di aver riconosciuto dalla voce il suo compare di osteria (un buontempone sempre in vena di scherzi) si mise a sghignazzare divertito e fece:
"Ah! AH! Federico!... Federico! Si-tu ti?".
Dopo una pausa di silenzio, l’interlocutore disse, un po’ risentito:
"Non sono Federico!"
"Ah! Ah! Alora… te ssi’… te ssi’… Mariéto!"
"No… non sono Mariéto".
"Tonìn… quel mato de Tonìn!".
"No!… io vorrei parlare con la Ketty…"-
"Ah! Ah! Alòra gò capìo, te ssi’ Piero, matarèl de un matarèl, più de tuti quei altri!".
A questo punto la comunicazione venne bruscamente interrotta, e Cici restò con la cornetta a mezz’aria e la gioiosa curiosità di sapere quale dei suoi compari gli avesse fatto lo scherzo.
I pianti, le lacrime, la disperazione invasero, il giorno dopo, la casa e l’esistenza del Beppo: a quanto gli parve di capire, un certo fidanzato, dopo una terribile scenata di gelosia, aveva piantato Caterina, accusandola di avere almeno una dozzina di amanti. In una atmosfera di tanta mestizia, non ebbe cuore di raccontare alle due femmine il fatto straordinario e divertente che gli era capitato la sera prima; e così, da quell’uomo solo che era, rise di gusto fra sé e sé pensando:
"Chi sarà-lo sta quel fiol de un can che me ha telefonà ieri sera?".

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