Falci e martelli - Sezione Alpini Treviso

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Falci e martelli

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FALCI E MARTELLI, TENAGLIE E "BRITOE"
con tre banchi da falegname

Le fucine del serravallese

di Eugenio Tranchini e Fiorella Foti
Rilievo catastale eseguito nel 1709 della località chiamata "alla Fusina di Sopra "
(.) La principale fucina del serravallese era ubicata in località "Sega", molto vicina alle sorgenti del Meschio: chi si reca anche oggi in questo sito angusto e incassato in fondo alla valle, può prendere visione, al numero civico 28 di Via della Sega, di ciò che resta dell'officina un tempo brulicante di vita.
Essa sorgeva in posizione isolata, accanto alla villetta, oggi diroccata, che appartenne nella prima metà del '500 al poeta serravallese Marcantonio Flaminio, il quale vi si recava a villeggiare nella stagione estiva, e vicino ad un edificio (dal quale trasse nome poi la località) adibito a mulino e a sega per legnami: come tale esso si trova citato nel "Libro dell'estimo dei cittadini di Serravalle" per l'anno 1548, dove si legge che "Ser Bernardo Rigon ha lo utile dominio di una posta de mulin con tre rode, una sega et un folo, qual folo è destruto, con case de copi et muraze e la siega de Canal sopra il fiume Mesco". A titolo di cronaca trent'anni dopo questa testimonianza, nel 1578, sappiamo che "il molin" venne comprato dal nobile serravallese Guido Casoni, per la cifra di 1500 ducati.
Tre ruote, sfruttando il medesimo salto delle acque del Meschio, che venivano convogliate tramite un piccolo canale (la roggia), (.) mettevano in azione la macina per cereali da una parte e i due magli della fucina dall'altra. Attiva per almeno cinque secoli, (.) quest'officina è stata definitivamente abbandonata nel 1974: l'ultimo titolare è stato Vittorio Della Giustina, succeduto al nonno Giuseppe (1871-1943) e al padre Roberto (1912-1977), entrambi fabbri ferrai.
(.) Per ricostruirne la struttura possiamo basarci sulle analoghe officine del Bellunese, su cui sono stati compiuti accurati studi, oltre che su qualche documento di compravendita o di affitto, importante soprattutto per la nomenclatura dei vari arnesi di lavoro.
È bene precisare subito che la "fusina", un edificio solitamente costituito da blocchi di pietra, con parti in legno, era situata sempre in prossimità di un corso d'acqua (.), dal momento che l'energia idraulica era elemento insostituibile per azionare il maglio. L'acqua veniva condotta alla "fusina" attraverso un canale, il primo tratto del quale era scavato nel terreno, costituendo la "roggia" (ròia), che continuava poi per alcuni metri in un canale di legno terminante in uno scivolo a forte pendenza. La "fusina" stava di norma ad una quota di qualche metro inferiore rispetto al canale, in modo da ottenere il salto d'acqua necessario per la forza motrice. Dallo scivolo l'acqua precipitava, colpendo le pale di una ruota che metteva in azione il maglio, cui era collegata.
Quest'ultimo era formato da un tronco (detto mànech), lungo circa tre metri, e dalla mazza (mài), un enorme martello il cui peso variava di solito tra i 25 e i 50 Kg., forato e fissato al "mànech" mediante un cuneo. L'albero mobile della ruota imprimeva, attraverso la forza dell'acqua, un movimento rotatorio continuo all'estremità del manico, e così il maglio, azionato da un eccentrico, cadeva a ritmo regolare sull'incudine, infissa su un grosso ceppo di legno (zòca) o su un piccolo tavolo dello stesso materiale.
I magli battevano dai 150 ai 180 colpi al minuto, forgiando quei lingotti dai quali prendevano forma, oltre alle lame per le spade, anche attrezzi agricoli, come falcioni e perfino battacchi di campane; che la fucina di Serravalle fosse adibita anche a questo scopo, ci è stato infatti confermato da una testimonianza rinvenuta nel "Libro dei conti della Massaria di San Tiziano di Ceneda" (1407-1507): vi si legge, in data 24-3-1481, che venne ordinato a Serravalle il "martello per la nuova campana granda" da installare sulla torre campanaria della Cattedrale e la fusione di una "campanella pizola, del peso di libre 106". Aggiungiamo a titolo di curiosità, che il maglio grande della nostra fucina batteva 150 colpi al minuto, quello piccolo 170.
Quanto agli attrezzi in uso nelle "fusine", due originali inventari, redatti a Belluno rispettivamente dal notaio Nicodemo Delaito il 10 novembre 1554 e dal notaio Sommariva il 1 gennaio 1566, riportano un elenco di utensili contenuti in due fucine di Fisterre, alla periferia nord di Belluno:
Un maio da acqua
Quatro mai da batter
Un mai grande
Cinque mai da una man
Un ferro da levar le spade
Cinque ancuzeni
Tré taiadori de ferro
Un scarpello da segnà le spade
Due stadere de libre 100 et una da libre 270
Un banco de l'azzal
Una stagnada
Cassetta da spade
Un casson da tegnir azzal
Un Maio d'acqua in do pezzi
Un altro Maio d'acqua in do pezzi
Tanaia da conzar li mai d'aqua ben.....
Tanaia da conzar li mai de doe man
Un fuso dal maio da l'aqua su a Vezzan
Una siega
Do tenaie da tirar azzal
quatro stampe da far canaleti, et canali alle Spade
Una giova da temprar
Do legni da temprar
L'organico delle fucine, inoltre, doveva presumibilmente comprendere, a seconda dei compiti, gli "spaderi", i "faveri", i "battitori", i "limadori", i "molatori", gli "incisori", i "tempradori", i "brunitori", con le varie qualifiche di "mastro", "apprendista", e "garzone".
Per ciò che concerne la produzione, sarebbe interessante poter stabilire quante lame uscissero dalla nostra fucina serravallese. Non si possono formulare che delle ipotesi, sulla scorta dei raffronti con la vicina Belluno, dove è d'obbligo ricordare almeno due importantissime "fusine", attive tra il XV e il XVI secolo e assai rinomate anche all'estero: quelle dei fratelli Ferara e quelle della famiglia Barcelloni.
Dai documenti in nostro possesso (atti notarili e le già citate Relazioni dei Rettori in Terraferma di stanza a Belluno), appare chiaro come dalle botteghe dei Ferara uscissero in media 6000 spade all'anno, da quelle dei Barcelloni non meno di 2000: un interessante documento, risalente al 1578, che riportiamo come "curiosità", ci fornisce a proposito dei fratelli Ferara una singolare testimonianza. In quell'anno, davanti al già citato notaio bellunese Nicodemo Delaito, "messer Zanandrea e messer Zandonà fratelli Ferrari spadai de Cividal di Bellun" stipulavano un contratto con due mercanti inglesi, impegnandosi a fabbricare per loro conto 600 spade al mese per dieci anni, per un totale di ben 72.000 spade!
Ciò dimostra, oltre alla notorietà che le lame di quei maestri avevano riscosso all'estero - Andrea Ferara, tra l'altro, pare fosse famoso in Inghilterra per aver lavorato in Scozia tra il 1560 e il 1566 -, come il "volume d'affari" non fosse per nulla trascurabile!
Sulla base di questi dati di confronto e tenendo anche conto del fatto che dalle testimonianze storiche contemporanee si deduce che la "fusina" di Serravalle non dovesse essere meno nota di quelle bellunesi, si può presumere che annualmente dalla nostra officina uscisse almeno negli anni "d'oro" della produzione, collocabili tra il '400 e il '500, un numero di spade variabile tra le 4000 e le 5000; scartando quelle imperfette, possiamo dedurre che quotidianamente vi venisse dunque forgiata in media una ventina di lame, con l'impiego di 9-10 ore lavorative.

Foto e testo sono tratti dal volume: "Le antiche fabbriche di armi  bianche a Ceneda e Serravalle" edito dalla Tipografia Editrice Trevigiana nel 1983 (per g.c. degli autori)


FALCI E MARTELLI, TENAGLIE E "BRITOE"
con tre banchi da falegname

Zompini, le arti che van per via e la fine di un'epoca

di Antonio Fossa
Incisioni tratte dall'opera "Arti che van per via" di Gaetano Gherardo Zompini (1700-1778)
L'avventura terrena di Gaetano Gherardo Zompini (1700-1778), pittore ed incisore, coincide quasi con il Secolo che termina con la Rivoluzione Francese: notoriamente, la fine di un'Epoca. Il Settecento è anche l'ultimo secolo della millenaria Repubblica di Venezia, il secolo del crepuscolo, ma di un crepuscolo dorato attraverso il quale gli uomini di quel tempo hanno faticato ad intravedere il prossimo futuro o, forse, non lo hanno voluto vedere, come ci testimonia, tra l'altro, anche la vicenda editoriale delle "Arti che van per via", l'opera per la quale Zompini è ricordato.
Sono noti pochi documenti riguardanti la sua vita, poco è rimasto anche delle sue opere pittoriche. Non molto precise sono le note biografiche storiche, mentre un suo ritratto, opera di Alessandro Longhi, si trova al Museo Correr.
Zompini nasce a Nervesa il 24 settembre del 1700 in borgo Piave, posto lungo le rive del fiume ed ospitante professioni ed attività artigianali per lo più connesse con i traffici commerciali che da sempre si svolgevano lungo il corso ed attraverso il fiume: oltre al porto fluviale dove avveniva il cambio (tra bellunesi e nervesani) degli equipaggi delle zattere che portavano merci a Venezia, vi era anche un passo barca. Un capitello dedicato a San Nicolò, patrono degli zatterai, stava al centro della piazza intorno alla quale si raccoglieva il borgo.
Il fiume era ben più ricco di acque di oggi e costituiva il più importante asse di comunicazione - una sorta di moderna autostrada - tra monti e laguna, mentre il passo barca rappresentava un passaggio obbligato per chi si spostava lungo la Pedemontana. Nervesa era quindi una specie di nodo intermodale ante litteram. Con le merci si spostano anche gli uomini e con essi le idee ed i racconti, e questo aveva sicuramente un benefico effetto sul modo di pensare della gente, sulla loro apertura mentale: c'è da ritenere che lo ebbe anche sul giovane Zompini.
Quella di Gaetano era una famiglia di zatterai che vivevano in una casa accostata a quella di altri zatterai, una casa un po' speciale, abitata una volta dall'umanista Gerolamo Bologna1. Probabilmente qualcuno si sarà accorto delle buone attitudini per il disegno di Gaetano e papà Andrea, otto figli sulle spalle, pensò bene di mandarlo a bottega a Venezia, dal rinomato (allora) pittore Bambini, dove apprese le tecniche ed andò creandosi poi un suo stile personale ispirato a quello del rinomato pittore Sebastiano Ricci. È quasi coetaneo del veneziano Giovanni Battista Tiepolo, che ebbe un successo ed una fama molto maggiori di Zompini. Più avanti (1756) furono entrambi membri dell'Accademia veneziana della quale Tiepolo fu il Presidente. Oltre che a Ricci, è a Tiepolo che il nostro pittore si ispira e, tra le sue opere, forse le migliori sono proprio quelle che maggiormente godono di questa influenza.
Dipinge molto a Venezia, nelle chiese dei Frari, dei Teatini, in S. Ubaldo, per citarne alcune, mentre fuori città opera molto raramente, come nella chiesa dei Serviti di Gradisca o di San Lorenzo di Arcade. Dipinge quadri, anche su commissione, per la Corte spagnola; alcuni lavori sono per committenti olandesi, russi, inglesi. Produce anche incisioni, oltre a quelle delle Arti, con soggetti religiosi, pastorali e mitologici.
A Venezia gli echi del cambiamento che si annuncia ormai prossimo inducono all'allarme, ma non generano mutamenti significativi.
Le novità che sembrano alle porte sono paragonate al lontanissimo ricordo di Attila, cosa che chiarisce anche il valore ed il significato che ad esse viene attribuito. In realtà il "nuovo" è l'Illuminismo. Mentre Zompini vive l'ultimo terzo della sua vita, in Francia vede la luce l'Encyclopédie; di Venezia Jean Jacques Rousseau aveva conoscenza diretta, avendovi soggiornato nella prima metà degli anni '40 come segretario dell'ambasciatore francese.
Nel Contrat social (1762) la Repubblica viene definita "un état depuis longtems dissout" ("Uno stato da tempo dissolto")2, una sorta di fantasma che non ha ancora coscienza di essere tale, che crede di essere ancora vivo. I tratti del futuro prossimo si intravedono anche in un dato tremendo per Venezia: nel 1770 il movimento portuale della asburgica Trieste supera per la prima volta quello del porto lagunare. Un futuro segnato dunque, che finirà, come ricorda Franco Venturi con una bella citazione, quando "Napoleone verrà a dare l'ultima spinta ad un processo che andava maturando da decenni nei più diversi centri della Repubblica di Venezia. Allora quasi cadrà «come uno specchio infranto»"3.
Risale al 1746 la richiesta di privilegio (una sorta di "diritto d'autore") di Zompini relativa alle Arti che van per via, che gli viene concesso l'anno successivo. Quindi, mentre il pittore lavora producendo convenzionali pitture di soggetto religioso con qualche escursione di tipo mitologico, matura in lui il progetto di un lavoro totalmente diverso, di rottura con il passato, che realizzò nel passo degli anni '50.
L'opera si compone di 60 tavole, su un progetto di 100, il cui indice compare nell'avviso "Agli amatori delle stampe"4; sono inoltre noti 95 disegni preparatori e 4 tavole inedite della serie, che non fu completata, forse a causa dell'insuccesso editoriale della prima edizione.
Ogni tavola edita è accompagnata da tre versi in rima (ABA), attribuiti all'amico sacerdote Questini.
Cosa possa aver indotto Zompini a progettare e poi a realizzare quelle tavole può essere solo frutto di congettura, mancando documenti attendibili che possano aiutare a rispondere alla domanda. Tuttavia, alcune considerazioni sono proponibili. Zompini non riuscì mai ad uscire dallo stato di indigenza in quanto non divenne mai un "grande" pittore ben pagato. Fu aiutato da un mecenate che lo stimava, Antonio Maria Zanetti, Custode della Pubblica Libreria di San Marco, cosa che gli permetteva di sopravvivere, avendo una famiglia numerosa cui provvedere. Questa sua condizione di vita gli avrà fatto conoscere bene la realtà della povertà che la decadenza della Repubblica stava producendo e diffondendo in tutta la terraferma ed in modo sempre più evidente anche in Venezia. In città cercano un destino gli uomini e le donne espulsi dalle campagne, fauna che sopravvive con attività che si potrebbero definire "di nicchia", come il codega (portatore di lume) della tavola 7, una delle più belle della raccolta ("De note, ora ai teatri, ora al Redutto / Son quel che col feral serve de lume; / E pur che i paga mi so andar per tutto") dove, incidentalmente, vediamo anche un'aristocrazia che non abbonda di servitù.
Tuttavia nelle Arti non vi è alcun segnale di uno Zompini "politico", in ogni caso impensabile nella Venezia del '700: i disegni non sembrano essere che pure rappresentazioni, senza tracce di denuncia quando non esprimono cinico distacco. In ogni caso parlano di poveri lavoratori ("...La strussia è granda, e se ne chiapa pochi" - tav. 13), che provenivano, come detto, in molti casi dalla terraferma ("Mi costa zerla vengo fin da Role, / E pignate furlane vendo: st'altro / Gha in sti cesti da Padoa te-chie, e ole" - tav. 14) che vivono in un mondo di poveri ("In sti canestri gho del pesse aposta / Da poco prezzo per la povertae, / Che in pescaria se vende quel che costa" - tav. 32), che si tolgono solo raramente qualche sfizio ("Su le Sagre, e spesso anca in altri lioghi / Frittolazze mi vendo col zebibo / Che ve imprometto le ghe impata ai Cuoghi" tav. 31).
Ma forse proprio in questo spietato apparente distacco sta il valore della serie zompiniana, che colpisce sotto la cintola la società del tempo, perché è come se dicesse: "ecco qua come si vive oggi VERAMENTE nella Venezia del popolo". Discorso questo che, come detto, non piace. Giampiero Bozzolato, nel bel volume edito in occasione del duecentesimo anniversario della morte, spiega che l'opera di Zompini "era [...] esterna a quelle esigenze del potere che si ritrovavano tutte soddisfatte sotto i cieli eternamente incantati dei grandi del vedutismo veneto e nelle magiche fantasticherie delle composizioni tiepolesche" e ancora: "Le Arti dello Zompini erano diverse, violente, nuove e quindi pericolose o almeno incomprensibili: l'ampiezza e la gravità del divario tra le esigenze interne alla società veneziana e la rappresentazione zompiniana di uno dei momenti più delicati del sistema politico-economico veneziano e cioè di quella valvola di sfogo alla miseria e alla disoccupazione che era data dall' "andar per via", fu certamente immediata e clamorosa..." 5
Quanto detto spiega perché la prima edizione del 1753 fu un disastro e bene non andò nemmeno la seconda, tra 1785 e 1786, nonostante i tempi fossero ancora più maturi e si fosse alle porte della rivoluzione francese, anno nel quale Venezia contava 22.000 poveri su una popolazione di 136.000 abitanti.
Muore Zanetti nel 1767 e Zompini nel 1778, dopo aver trascorso gli ultimi anni in modo assai disagiato, afflitto da una malattia alla vista che alla fine lo aveva reso cieco. Le lastre delle Arti finiscono nel 1784 nelle mani del Residente inglese John Strange, intenditore e mercante d'arte, che le acquista dagli eredi dello Zanetti. Egli incarica un suo agente, Giammaria Sasso, di scrivere una Memoria, sulla quale poi lo stesso Strange interviene, che raccontasse la vita e le opere di Gaetano Gherardo Zompini. Non è un lavoro accurato, come testimoniano imprecisioni ed errori, come quello relativo alla data di nascita, anticipata di due anni, tuttavia rimane la fonte più importante di informazioni sul pittore ed incisore nervesano.
Nel 1787 Strange lascia la città e torna in patria portando con sé le lastre delle Arti.
Inizia qui la fortuna artistico-commerciale del lavoro di Zompini, testimoniato dalle numerose edizioni britanniche. L'Inghilterra del tempo si sta avviando all'apice del suo potere imperiale, che maturerà dopo la definitiva sconfitta di Napoleone e durerà per quel secolo che comunemente viene associato al regno della regina Vittoria. Ciò che è in qualche modo decaduto, decadente e medievale suscita la curiosità un po' morbosa della società britannica, per la quale la povertà, il degrado e la violenza, ben presenti anche nelle loro città, sono accettabili in quanto "pittoreschi" e soprattutto non inglesi. Zompini viene conservato quindi per tutto il Diciannovesimo secolo in una sorta di strana ed umiliante "cattività" britannica e ritorna in Patria grazie alla ingenua e dilettantesca ma importante riscoperta paesana operata da Oreste Battistella tra 1917 e 1930, per essere poi più degnamente celebrato nel duecentesimo della morte, nel 1978.

Note:
1. Le notizie storiche su Nervesa e sulla famiglia di Zompini sono tratte dall'archivio, per lo più inedito, di Luigi Fossa.
2. Citato in Venturi, p. 32
3. Venturi, p. XIII, che cita Carlo Dionisotti.
4. Bibl.Marciana, 166 D II
5. Bozzolato, p. 15

BIBLIOGRAFIA
Battistella Oreste, Della vita e delle opere di Gaetano Gherardo Zompini, pittore e incisore  nervesano del secolo XVIII, Bologna 1930
Bozzolato Giampiero, Gaetano Zompini incisore senza fortuna, Padova 1978
Venturi Franco, Settecento riformatore, vol 5, t.2° - La Repubblica di Venezia (1761-1797), Torino 1990
Zompini Gaetano, Le arti che van per via nella città di Venezia, Milano 1980
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